L’Arcivescovo ha presieduto la Processione e l’Eucaristia della Domenica delle Palme in Duomo. «La celebrazione della Pasqua del Signore è grazia offerta a tutti, anche a coloro che si proclamano estranei»
di Annamaria
Braccini
La Processione, i canti che l’accompagnano, i 12 Kyrie delle solennità, il Pontificale presieduto dall’Arcivescovo e concelebrato dai Canonici del Capitolo metropolitano – ai quali si aggiunge il vicario episcopale per la Zona pastorale I Milano, monsignor Carlo Azzimonti – che portano anch’essi tra le mani l’ulivo appena benedetto dal vescovo Mario, presso l’altare di San Giovanni Bono. La presenza delle Confraternite e degli Ordini Cavallereschi, i fedeli riuniti tra le navate della Cattedrale: tutto parla e fa memoria di quell’ingresso a Gerusalemme di più di 2000 anni fa che ci introduce oggi, a sua volta come un grande portale di ingresso, nella Settimana Santa. Settimana detta, per la sua esemplarità, «autentica» nel Rito ambrosiano e che inizia, a Milano, con una giornata di pioggia e grigia, per cui la tradizionale Benedizione dei rami di ulivo e di palme e la Processione si svolgono all’interno del Duomo, comunque, pieno della luce che viene dalla Passione, Morte e Risurrezione del Signore. Eventi, realtà, di fronte a cui non si può essere spettatori ottusi, ostili o abitudinari.
«Che sarà di quelli che assistono all’evento, ma non ne capiscono il significato, di quelli che guardano e non vedono, di quelli che si trovano dentro il dramma, sulla scena, e si comportano come se fossero in platea; di quelli che ascoltano le parole come se fossero racconti della vita altrui e non si rendono conto che sono rivolte a loro, che c’è chi li sta chiamando». Insomma, gli ottusi che stanno accanto agli ostili, «quelli che seguono il personaggio in attesa del momento opportuno per aggredirlo; che osservano i gesti della compassione per spiarvi la trasgressione; che schedano i presenti e gli amici, per denunciarli come complici e denunciare una congiura». Nel Terzo millennio, come in quel Pesach – la Pasqua ebraica – che vide Gesù entrare a Gerusalemme; allora e, ancora di più ora, avverte l’Arcivescovo, c’è anche l’abitudine che segue distratta e disillusa i fatti.
«Che sarà di noi che forse non ci riconosciamo negli spettatori ostili e neppure negli spettatori ottusi, ma che siamo piuttosto gli spettatori abituali, quelli che hanno già capito e non si aspettano sorprese; quelli che hanno provato tempo fa un fremito di emozione e si aspettano che li attraversi ancora quella commozione che è insieme struggente e confortante, come la rassicurante constatazione di essere ancora capaci di buoni sentimenti; quelli che hanno interiorizzato la persuasione di non poter mancare, come a un adempimento doveroso e sufficiente per sentirsi a posto con la tradizione di famiglia o con i costumi della gente».
L’invito è, al contrario, a comprendere cosa accade nel dramma e nella glorificazione di Cristo, quando «l’universo intero è scosso in modo inaudito, come se avvenisse il contrario di quello che avviene durante il terremoto». Perché «il terremoto fa crollare le case, i palazzi e i templi, invece Gesù glorificato riedifica; il terremoto semina il panico, Gesù diffonde la pace; il terremoto rende pericolose le cose che si danneggiano le une e le altre, Gesù riconcilia tutte le cose così che siano di vicendevole giovamento; il terremoto fa scappare, Gesù raduna i molti perché siano un cuore solo e un’anima sola». Un rivolgimento del mondo e della storia, dunque, che non è un’emozionante «sacra rappresentazione», ma ciò che ci fa «uomini e donne mortali rivestiti di immortalità, conformati al Figlio per essere in verità figli, membra del corpo di cui Cristo è il capo, cioè la Chiesa».
«La celebrazione della Pasqua del Signore è quindi la grazia offerta a tutti. Da qualunque posizione uno parta, tutti sono convocati per essere resi partecipi della gloria del Cristo risuscitato, anche gli ottusi, anche gli ostili e gli abituali, anche quelli che si atteggiano in una posizione di estraneità o che si proclamano indifferenti. La grazia che ci convoca opera non in una parola che provoca qualche risonanza, ma nei sacramenti che rendono possibile partecipare, in verità, della vita di Gesù».
Allora, si diviene «non spettatori in cerca di emozioni, ma persone libere che vogliono conformarsi, con la fede, al Signore che ci ha convocati, riconciliati e confermato nella speranza che la vita non finisce».
Prima della benedizione solenne, è ancora l’Arcivescovo a indicare come vivere al meglio i giorni che ci separano dalla Pasqua. «Portate questi rami di ulivo e di palma dappertutto, là dove è possibile regalare un po’ di speranza alla gente che incontreremo come segno che abbiamo preso parte ai santi misteri, alla gloria del Signore e che ci prepariamo a rinnovare la nostra fede in questa Settimana Santa. Che sia un invito a partecipare tutti alla gioia del Signore».