Nella festa di San Giuseppe celebrazione eucaristica in Duomo per 4000 studenti degli istituti di formazione professionale. Nel suo «elogio di coloro che partono» monsignor Delpini ha tracciato il ritratto di una gioventù affascinata «dall’impresa di diventare adulti» e che non sta «sul divano a lamentarsi»
di Annamaria
BRACCINI
Oltre 4000 ragazzi provenienti da tutta la Lombardia in Duomo per pregare insieme, riflettere, ascoltare l’Arcivescovo. Sono i giovani impegnati nella formazione professionale che, con i loro educatori, docenti, tutor e responsabili, partecipano alla celebrazione eucaristica nella solennità di San Giuseppe, patrono degli artigiani. Alla presenza di esponenti del mondo politico e imprenditoriale – promotori dell’evento sono la Confap (Confederazione Nazionale Formazione Aggiornamento Professionale) e l’Aef (Associazione Enti di Formazione Professionale della Lombardia) – la Messa è concelebrata da 16 sacerdoti, tra cui il presidente della Confap don Massimiliano Sabbadini e il superiore generale dell’Associazione Formazione “Giovanni Piamarta” padre Giancarlo Caprini. Il saluto di apertura viene espresso da don Sabbadini che dice: «In cammino nella crescita professionale e umana, ci sentiamo accompagnati, seguiti, con un amore appassionato nell’avventura della vita. Ci raduniamo qui oggi nel giorno di San Giuseppe, silenzioso artigiano di un infinito capolavoro che custodisce ancora lo straordinario dono della Chiesa».
«Desidero che vi sentiate tutti accolti con simpatia e con rispetto: in questa chiesa che ha tanti secoli voglio che si senta la giovinezza», spiega all’inizio del rito monsignor Delpini, che nell’omelia scandisce «l’elogio di coloro che partono»: «Quelli che avvertono l’attrattiva di una terra promessa e intraprendono un viaggio, sia pure per strade che non conoscono, fiduciosi che sul cammino qualche angelo li aiuterà. L’elogio dei ragazzi che vivono la loro giovinezza con l’impazienza di diventare adulti e contestano la nostalgia di restare bambini. Quelli che sono pieni di gratitudine per ciò che hanno ricevuto, ma che sono consapevoli che non è più tempo di essere accuditi e serviti».
Insomma, gente che parte con coraggio anche se non ha tutte le garanzie. «Voglio fare l’elogio di quelli che si fidano, come Abramo che, chiamato da Dio, obbedì, partendo senza sapere dove andava. Quelli che sono attratti da una promessa che è convincente perché il fascino dell’impresa di diventare adulti è più persuasivo che stare sul divano a lamentarsi di come sia sbagliato il mondo e schifosa la società».
E continua Delpini, disegnando altri caratteri di questa gioventù che «non ne può più di stare ferma e sola in un mondo virtuale senza fatiche da condividere, senza opere che si possono vedere, toccare e che siano utili a qualcosa. Elogio di quelli che partono perché hanno imparato di avere stima di sé e sanno di avere più qualità che difetti, anche se talora sono portati a deprimersi e a dubitare di non essere adatti alla vita. Elogio di quelli che pensano che il mondo non sia un pasticcio irrimediabilmente rovinato, ma lo vedono come una sfida e una vocazione e perciò vogliono mettere mano all’impresa di aggiustarlo. La società non può fare a meno di quelli che vogliono reagire a coloro che si lamentano di tutto». Questi sono i ragazzi che partono insieme, «interpretando l’amicizia non come un legame che diventa complicità nella trasgressione e nell’eccitazione di una notte, ma come incoraggiamento a coltivare la passione per le cose buone, per il sogno di un mondo più pulito, accogliente e solidale. Un gruppo di amici convinto può annunciare l’alba di una nuova primavera».
Ma di cosa hanno bisogno questi viaggiatori della vita? Per il vescovo Mario occorrono «la passione, il gusto, l’entusiasmo per le cose giuste, per il bene di tutti; la magnanimità e la compassione. Per aggiustare il mondo è necessario imparare un mestiere, decidersi con determinazione. Buona volontà e competenza sono le risorse» con cui farlo, «in un’alleanza con Dio rinnovata nell’Eucaristia. È questo il mio elogio per voi che siete qui».
E alla fine, alla lode si aggiunge anche una “penitenza” che l’Arcivescovo chiede a ognuno. Andare il venerdì santo nella propria parrocchia e, baciando il Crocifisso, fare memoria dell’amore di Dio chiedendo che il Signore ci insegni ad amare.