Il sociologo Mauro Magatti riflette sul Fondo famiglia-lavoro: «Un’iniziativa da valutare innanzitutto sul piano simbolico e culturale. Si deve ripartire da scelte di sobrietà»

di Pino NARDI

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Il Fondo famiglia-lavoro è un segno molto importante della Chiesa ambrosiana, perché lancia un messaggio chiaro: mettersi insieme e ricostruire solidarietà, altrimenti nessuno si salva da solo. Lo sostiene Mauro Magatti, preside della facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano.

Come valuta la proposta del cardinale Tettamanzi?
Come lui stesso ha detto, l’iniziativa è un segno: certo non si pensa in questo modo di risolvere gli attuali enormi problemi. Tuttavia, in mezzo a una crisi la cui portata è ancora molto incerta e che comincia a colpire le famiglie, avere preso questa iniziativa mi è parso un segnale molto importante, perché siamo tutti vittima dell’idea che le soluzioni vengano sempre dall’alto, da qualcun altro. Naturalmente è giusto aspettarsi che il Governo prenda le iniziative opportune con proposte politiche per risolvere i problemi, ma questo non significa che, sia a livello di singole persone, sia di parti di collettività come può essere la Chiesa, non ci si faccia carico anche di un pezzo di corresponsabilità. Quindi l’iniziativa non deve essere valutata innanzitutto sul piano tecnico o finanziario, ma su quello simbolico e culturale.

Infatti l’Arcivescovo ha chiarito che non è sostitutivo dell’intervento delle istituzioni…
Appunto. Proprio in un momento in cui si parla in continuazione di crisi, dà un messaggio molto opportuno culturalmente: ci mettiamo insieme e ricostruiamo solidarietà, perché nessuno si salva da solo. Questo ha invertito un po’ la tendenza, ha dato un senso in un’epoca in cui è molto avvertito sentirsi abbandonati ciascuno per conto proprio. Aver dato l’idea che invece ci sono comunità che si fanno carico degli altri mi sembra culturalmente rilevante.

Una proposta in linea con la tradizione ambrosiana?
Sì, tutta la storia lombarda – e di Milano in particolare -, avendo una forte innervatura cattolica, ha sempre puntato allo sviluppo economico, al darsi da fare, alla concretezza, ma insieme anche a garantire le condizioni dell’integrazione sociale molto alta. Questo elemento ha sempre irrobustito l’economia e ha creato un contesto sociale che in molte fasi è stato coeso e capace di raggiungere obiettivi comuni. Quindi non semplicemente un fattore assistenzialistico, ma di stabilità e di consistenza del corpo sociale. Anche da questo punto di vista, nel segno di questa tradizione, non è irrilevante l’iniziativa. Inoltre va nella stessa linea illustrata dal presidente Napolitano a Capodanno: per uscire dalla crisi bisogna stare insieme, non se ne esce con una logica meramente individualistica.

Tettamanzi ha parlato di sobrietà…
È un buon punto, sicuramente molto complesso. Su questo io sono sulla linea del Cardinale. Tuttavia c’è una logica economica, comprensibile e in una certa prospettiva giusta, che invece dice: si esce dalla crisi se le persone non si fanno prendere dalla paura e si rimettono a consumare. Per quanto questa indicazione sia tecnicamente corretta e ineccepibile, credo che invece – e in questo sono appunto dalla parte dell’Arcivescovo – una crisi come questa non si risolve solo con strumenti tecnici, ma anche attraverso un risveglio culturale ed etico, di senso e di significato. In fondo è lo specifico della Chiesa: da una parte destinare concretamente risorse a questo obiettivo, ma dall’altra segnalare che la crisi ha un fondamento etico-morale prima che tecnico. Il problema non è mettere pezze, ma riflettere sul modello di sviluppo economico, come ha detto anche il Papa.

Un segno di contraddizione che la Chiesa pone al “pensiero unico”…
Sì, si dice che l’economia va bene se è giusta, se ci aiuta a star bene. L’importante è che non sia assolutizzata, che non diventi l’unico parametro. Una crescita economica equilibrata di lungo termine ha bisogno di valori. Esattamente ciò che invece negli ultimi anni non è stato fatto, perché si puntava tutto sul breve e brevissimo termine e di valori non c’era più bisogno, perché non c’erano più prospettive di crescita. Invece il richiamo alla sobrietà – che per alcuni può essere visto come un’indicazione pericolosa, perché potrebbe aggravare l’arresto dei consumi – in una prospettiva più ampia suggerisce una soluzione diversa alla crisi.

Non si tratta di dare contributi a pioggia, ma di individuare bisogni aiutando con un cammino di integrazione sociale…
Chi resta senza lavoro, perde la casa o si trova in una situazione di emergenza, ha bisogno prima di tutto di risorse economiche, ma poi di ricostruzione di reti, di acquisizioni di competenze, di percorsi di reinserimento. Se ci si limita alle sole risorse economiche il rischio è quello di prendere una linea meramente assistenzialistica. Qui invece si esprime una posizione consapevole del fatto che i percorsi di impoverimento hanno bisogno di interventi che coinvolgono le persone, le reti, i rapporti e siano capaci di accompagnare chi è in difficoltà per rimetterlo in un circuito positivo.

C’è stato un dibattito su questa proposta: ha colto note stonate?
In Italia siamo abituati: ogni volta che la Chiesa prende qualche iniziativa c’è sempre qualcuno che ha da dire sul fatto che si fa o non si fa, e su come. Sono osservazioni legittime, ma che non riescono a cogliere il punto. Con la preoccupazione di sottolineare i distinguo, finiscono per non contribuire a creare quel clima di cui il Paese ha bisogno per affrontare un passaggio difficile. Sono osservazioni che alla fine non servono a nessuno.

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