Domenica 6 novembre Messa di suffragio nella parrocchia san Michele arcangelo e santa Rita
Domenica 6 Novembre alle ore 12.30 nella parrocchia san Michele arcangelo e santa Rita. La comunità cattolica Srilankese di Milano ricorda con affetto don Giancarlo Quadri.
Pubblichiamo il ricordo di Simona Beretta pubblicato su Milano7
Don Quadri: il prete dei migranti, generoso «padrecito»
Un anno fa, al risveglio in una delle prime domeniche di lockdown, ho saputo della morte di don Giancarlo: «Piangiamo e preghiamo per don Giancarlo Quadri», diceva il messaggio. Sapevo che era in ospedale per il Covid e, come tutti, speravo in un epilogo diverso. Giusto un mese avanti, appena prima che tutto venisse chiuso, lo avevo incontrato al convegno Mondialità e si scherzava, scongiurando di prenderselo… Don Giancarlo – responsabile dell’ufficio per la Pastorale dei migranti dalla sua costituzione fino al 2015 circa – è stato «il mio capo» per tanti anni e io ero alla primissima esperienza lavorativa dopo gli studi. Ancora molto giovane e acerba, lo accompagnavo un po’ passivamente nei suoi giri U per la Diocesi, dove cercava, con i pochi mezzi umani e materiali a disposizione, di portare a compimento il complesso e non ben definito incarico che gli avevano assegnato: «Sensibilizzare la comunità cristiana al positivo dell’immigrazione». I molti anni di collaborazione e vicinanza, condivisione di spazi e affetti, mi hanno fatto conoscere il pastore, ma anche la persona, l’istrione, l’amico e l’uomo di Dio. Spesso nei suoi racconti parlava di Vaprio d’Adda, dove era nato. Lì trascorre l’infanzia, cresce con i fratelli, gli amici e l’umanità varia che nell’immediato secondo dopoguerra popolava le corti lombarde. Lì la sua fede è germogliata: col catechismo, facendo il chierichetto, ma soprattutto dalla testimonianza di mamma Emilia, sempre pronta ad aiutare chi era nel bisogno e a comprendere le umane ferite che ciascuno si porta addosso. Poi la decisione di entrare in Seminario minore a 11 anni e di incamminarsi sulla strada del sacerdozio fino alla sua ordinazione nel 1969, nel pieno delle rivolte studentesche, nel fermento che muoveva i giovani guidati dal sogno di cambiare il mondo, per renderlo più giusto, attento ai diritti di ciascuno, per ridurre le disuguaglianze. Don Giancarlo non aveva mai dimenticato il fascino di quegli anni, dove anche la Chiesa, con il Concilio Vaticano II appena concluso, si apriva a una metamorfosi, tenendo il passo con la storia. Trascorre i suoi primi anni da prete a Pero, in una nuova parrocchia alla periferia di Milano, dove il 98% degli abitanti era migrante, dal sud Italia. Sono gli anni delle esperienze da prete dell’oratorio, al limite dell’incoscienza (quella bella), degli incontri con i preti-operai. Poi il bisogno di incontrare l’umanità molteplice e di essere ancora di più per gli ultimi lo portano in Africa dove trascorre diversi anni nelle missioni diocesane nello Zambia, a Siavonga, imparando la lingua locale e a comprendere e rispettare i limiti invalicabili dell’appartenenza culturale. Dopo quasi dieci anni, la malaria e altre ragioni lo riportano in Diocesi di Milano, ma per poco tempo. Rimessosi in sesto fisicamente e spiritualmente diventa missionario per e con i migranti italiani all’estero: in Inghilterra, negli ultimi anni in Belgio e prima ancora nel suo amatissimo Marocco, dove aveva trascorso gli anni più belli della sua vita. Fra queste esperienze, una lunga parentesi di quasi 20 anni la trascorre come responsabile della Pastorale dei Migranti della Diocesi di Milano: un incarico nuovo, quasi sperimentale, fortemente voluto dall’arcivescovo Martini. Don Giancarlo sembra l’uomo e il sacerdote con gli strumenti e l’atteggiamento adatti: conosce le lingue, avvezzo a confrontarsi con altre culture, con esperienza tra i migranti. Tutto è da inventare e lui ci mette anima e corpo: prodigandosi per la riapertura nel 2003 della chiesa di S. Stefano Maggiore – che diventa sede della cappellania dei migranti – e facendosi riferimento per i cappellani e le comunità migranti, abituate a vederlo comparire periodicamente alle loro Messe, anche solo per un semplice saluto, incarnando quel I care imparato dagli scritti di don Milani. Un uomo assetato di giustizia, che ha sempre conservato quell’indignazione nei confronti delle ingiustizie della vita e quella sensibilità nei confronti del patire altrui, che gli consentivano di strappare un sorriso anche fra le lacrime. Un uomo generoso, che chiunque manifestasse un bisogno ascoltava e a chiunque, se gli era possibile, dava, fosse anche una moneta o due. Un uomo misericordioso, che guardava all’uomo, alle sue debolezze, al dolore (vero o artefatto che fosse) e cominciava col farsi vicino. Un uomo, un prete, diventato per tutti «il prete dei migranti» o, come meglio e più teneramente dicevano i suoi fedeli latino-americani, il padrecito.