Regia: Pedro Almodóvar (Spagna/Francia 1999)
Interpreti : Cecilia Roth, Marisa Paredes, Antonia San Juan, Penèlope Cmz
Distribuzione: Cocchi Gori
Durata: 100′
Supporto: 35 mm; Dvd; Vhs
Dopo la morte in un incidente del figlio Estéban, Manuela, caporeparto nel centro trapianti di un ospedale di Madrid, legge il diario che il ragazzo compilava quotidianamente e trova una frase che suona pressappoco così: «Ieri sera, mamma mi ha mostrato una foto; ne mancava metà. Ho l’impressione che sia la stessa metà che manca alla mia vita». Un ‘allusione evidente al padre, di cui Manuela non ha mai voluto parlargli, forse perché consapevole della propria inadeguatezza a spiegare al ragazzo che il genitore possedeva un seno più abbondante del proprio e che rispondeva al nome (d’arte) di Loia. Ora la reticenza passata rende la vita insopportabile alla donna, che decide di andare a Barcellona a cercare Loia. Nell’impresa Manuela è aiutata da Agrado, un’amica di vent’anni prima. E la sua storia si incrocia con quelle della celebre attrice «Huma» Rojo (che già aveva sfiorato la vita di suo figlio) e di Rosa, una dolce e fragile ragazza che vuole fare la missionaria in America Latina. Verrebbe voglia di scomodare Bunuel, a proposito del capolavoro di Almodóvar. Verrebbe voglia se non altro perché non c’è oggi un autore che ricordi davvero il grande regista aragonese. Ci sono, certo, tentativi di imitarne il genio (loseliani con Addio terra/erma) o l’ispirazione (Vinterberg con Festen), ma sono episodi isolati all’interno di cinematografìe che per il resto percorrono altre strade. Il legame con Almodóvar è, sotto questo profilo, ancora più diffìcile: troppo diversi per sensibilità, sguardo e stile, i due autori spagnoli, perché li si possa davvero avvicinare. Eppure è un collegamento che non ha nulla di scandaloso se pensiamo all’impatto straordinario di Tutto su mia madre sul pubblico e sulla critica, avendo il film reso naturale, normale addirittura, la diversità, proprio come faceva ai suoi tempi (e con maggiore continuità) Luis Bunuel in merito al senso comune. Almodóvar ci racconta infatti una storia d’amore – amore materno e filiale soprattutto, ma anche amore paterno, fraterno, amore saffico – con protagonisti quantomeno bizzarri (padri ermafroditi, suore incinte), con toni melodrammatici che solo lui e l’inglese Mike Leigh (Belle speranze. Segreti e bugie) sanno usare nel cinema di oggi, citando e reinterpretando gli autori americani (soprattutto teatrali) degli anni Cinquanta, ricorrendo a un’ambientazione in cui l’effetto straniante è amplificato dalla musica’struggente di Alberto Iglesias. Eppure al termine di Todo sobre mi madre, titolo che allude a un capitolo del diario di Estéban dedicato a Manuela e che ricalca Ali About Ève (Èva contro Èva, 1950) di Joseph Leo Mankievicz, si ha l’impressione di aver assistito a una rappresentazione «totale», che contiene ogni cosa e il suo contrario, ma in cui la partecipazione e l’adesione emotiva sopprimono ogni altra possibile reazione. Ha scritto Ezio Alberione, in una cronaca da Cannes ’99, dove il film era in concorso (e si è aggiudicato un premio di consolazione, quello per la miglior regia, e uno singolare, quello ecumenico, poi bissati grazie all’Oscar della miglior pellicola non americana): «Forse la sospensione dell’incredulità rispetto alle vicende narrate nasce dalla capacità di toccare corde ancestrali della nostra appartenenza al genere umano». E’ un film di donne, Tutto su mia madre, come i precedenti del regista spagnolo. Ed è un film che inizia come una sperimentazione del dolore che si trasforma gradualmente in una disponibilità ad aderire nuovamente all’amore. Realtà che vanno di pari passo, se è vero che Manuela aveva già sperimentato su di sé, in passato, un ciclo di questo tipo. Eccetto tré Estéban che si danno il cambio nel corso della storia (e della vita), ma a cui spetta un ruolo di mero contorno, i personaggi sono tutti femminili: Manuela, Rosa, Huma, Agrado. Quest’ultima in particolare, col suo nome ibericamente felliniano (possiamo tradurre «Agrado», con una piccola licenza nei modi del verbo, come «Gradisca», e vedere il riferimento come un sincero omaggio al Federico riminese), riassume meglio di ogni altra la «verità» che il film ci consegna: «Una è tanto più autentica quanto più somiglia a ciò che ha sognato di essere». Non è più tempo di trasgressione arrabbiata per Almodóvar, che ci stupisce e «scandalizza» per la forza dirompente di ciò che esprime piuttosto che per il modo in cui lo fa. Alla fine confeziona un film bellissimo, in cui la vita riesce sempre, sebbene con fatica, a sconfiggere la morte, e l’amore a trionfare sull’indifferenza.
Enrico Danesi – Itinerari Mediali