Io non ho paura

Regia: Gabriele Salvatores –

Interpreti: Aitana Sanchez-Gijon, Dino Abbrescia, Diego Abatantuono –

Distribuzione: Medusa – Durata: 109′ –

Supporto: 35 mm; Dvd; Vhs

 

Durante un’estate torrida. Michele scorrazza per la campagna pugliese assieme a un gruppo di coetanei: una piccola banda pronta a sfidarsi in prove di coraggio gratuite, che ricorda certi personaggi usciti dalla penna di Stephen King. Anche il clima narrativo, che implica una sorta di "sprito del luogo", è simile: l’in-famigliarità del famigliare, l’evento inconcepibile che irrompe nella vita monotona d’ogni giorno. Per caso, Michele scopre un ragazzo selvaggio incatenato in un buco nel terreno: in realtà un piccolo principe, Filippo, figlio di una ricca famiglia del Nord Italia sequestrato a scopo di riscatto. L’avvicinamento dei due coetanei è lento, circospetto; poi il ragazzo del Sud diventa il protettore del prigioniero, senza sapere che i genitori sono coinvolti nel rapimento. E’ bello quando un regista si sforza di rinnovare il proprio rapporto col cinema, inoltrandosi in esperienze nuove anziché riposare sugli allori.
Gabriele Salvatotores, a onor del vero, ci aveva già provato con Nirvana e Denti, esperimenti coraggiosi però non del tutto riusciti. Da un pò di tempo, insomma, aspettavamo da lui un risultato completo, il titolo da annotare come una tappa importante nella sua filmografia: e Io non ho paura lo è. Ottimo adattamento del romanzo di Niccolo Ammaniti, il film è declinato alla prima persona, come lo è il libro e come dichiara il titolo. Narra una storia appassionante (con tanto di "arrivano i nostri" finale), ma nel frattempo rivela uno sguardo acuto su temi seri come il rapporto tra bambini e adulti, i riti di passaggio da un’età all’altra, la perdita dell’innocenza. Una questione di "sguardo", soprattutto.
La macchina da presa di Italo Petriccione conduce lo spettatore a volo per una distesa di campi dalla luminosità abbacinante; poi lo precipita sottoterra, nell’oscurità claustrofobica di una fossa impenetrabile alla luce. Salvatores posiziona la macchina da presa ad altezza di ragazzine, fecalizzando gli eventi attraverso il punto di vista (ingenuo, romanzesco, mitico) di Michele in modo da costituire per lo spettatore un alter-ego infantile attraverso cui osservarli. Il risultato è originale e sapiente; di più: una ricerca sul linguaggio di grande rigore formale mascherata sotto la linearità e la naturalezza del racconto. Ineccepibile anche il lavoro di casting: un gruppo di ragazzini più veri del vero, attori adulti poco noti (salvo Abatantuono, quasi irriconoscibile) ma bravi: e fisicamente aderenti ai ruoli.

Roberto Nepoti
La Repubblica

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