Era mio padre

Regia: Sam Mendes, (Usa 2002)

Interpreti: Tom Hanks, Paul Newman, Jude Law Jennifer Jason Leigh, Stanley Tucci

Distribuzione : Fox

Durata: 119′

Supporto; 35 mm; Dvd; Vhs

 

La storia: Mike Sullivan lavora per il boss John Roaney. Quando suo figlio assiste e uno dei suoi omicidi, Mike è costretto a iniziare una fuga disperata per salvare la vite dello scomodo testimone...
James Cagney saltellava come un ballerina, George Raft faceva giochi con le mani e con gli stecchini nella bocca: nella tradizione più nota e illustre del grande schermo il gangster è un duro che indossa gessati e libera in continuazione, intomo a sé, gesti di abilità e destrezza.
Il protagonista di Era mio padre , invece, possiede lo scetticismo insanabile e l’angoscia che lo sommerge come una piena, tipiche di un eroe del noir al capolinea di un destino avverso. Da dove viene questa mestizia di cui si imbeve il film come una brina onnipresente? Negli Usa l’hanno etichettata comefather’s grief ("dolore del padre"), questa sensazione densa, oleosa, di pena, affetto e responsabilità che emana da figure paterne in film come Signs ed Era mio padre, secondo film dell’inglese Mendes affermatesi con il successo prodigioso di American Beauty. Sensazione tanto più inedita, in questo caso, perché si tratta di un padre che di mestiere fa il killer. American Beauty era pieno di stile e poco di vita – ridotta in realtà a una sua caricatura grondante di glamour da copertina di newsmagazine per quarantenni benestanti -, Era mio padre lo è ancor di più, e questo, paradossalmente, lo rende più convincente: perché Mendes sembra molto più competente nel costruire estetiche che somigliano a racconti, fini efflorescenze di immagini che liberano emozioni legate alla cura di una forma, che nel parlarci con urgenza di qualcosa che gli sta a cuore. E’ un onesto mestiere anche questo: è una ingrata bugia pensare che chiunque faccia cinema debba essere un autore. Sarebbe come immaginare che chiunque si occupi di comunicazione possieda la bella anima di un poeta. In American Beauty l’occhio si riempiva delle allucinazioni su un letto di petali, qui lo fa con old fashion di berretti, soprabiti, Ford modello T, biciclette, mitra e aratri abbandonati in un campo dell’America metropolitana e rurale degli anni 30. Nel riprodurla su uno schermo, dotando quasi ogni faccia e ogni angolo di strada di un tratto da design, Mendes, che si è ispirato a un fumetto di un certo successo negli Usa (di Max Allan Collins e Richard Piers Rayner), non ha nessuna difficoltà. Così come piuttosto convincente è l’idea di stravolgere il cliché dei gangster e dipingerli come un’umanità consapevole tanto della propria brutalità quanto di un fato tragico. Ma è Tom Hanks , un attore, più della macchina da presa, a dotare il film del peso specifico necessario a comunicare qualcosa in più rispetto all’uniforme e colta super fìcie delle immagini. Colora l’impassibilità del duro da crime movie di un senso di colpa accettato come una missione eroica; la sua capacità di sopravvivere e di uccidere e di affrontare il pericolo, è una forma di abilità per la quale sembra provare un’indifferenza costante o una repulsione che non è in grado di confessare. Il suo attaccamento alla famiglia è l’unico riscatto per una vita della quale sembra conoscere a perfezione l’immoralità. Quando moglie e figlio vengono fatti fuori, perché un altro dei suoi figli è stato testimone di una resa dei conti che lo ha visto protagonista, inizia un viaggio verso la propria autodistruzione il cui unico pegno è garantire al figlio sopravvissuto un futuro diverso. Nicholas Ray ne avrebbe fatto un capolavoro toccante, Fritz Lang un teorema sull’ingiustizia come legge portante dell’universo. Mendes ci serve, come in un ristorante di classe, pura Hollywood da consumare con posate d’argento: il messaggio è troppo edificante ed elementare per farsi perdonare il fascino della violenza che la mdp, e l’industria americana, usano come propellente per catturare l’istinto del grande pubblico (anche in questo caso. è ancora un altro attore, Jude Law nei panni di un killer sadico e amante della fotografia, a offrire al film la chance di una vitalità non programmata). Pieno di cappotti pesanti inzuppati di pioggia e di occhi azzurri di origine irlandese, Era mio padre, gangster esistenziale, ha una sceneggiatura di qualità superiore a quella del cinema americano di oggi (di David Self. lo Stesso di Tredici giorni), una colonna sonora, ancora una volta, superba, di (Thomas) Newman (il migliore musicista hollywoodiano contemporaneo) e un (Paul) Newman d’annata, ma anche un finale più sommario e dolciastro di quanto il film meriti. E* uno spettacolo di classe che deve la sua rivincita edipica (i padri difendono i figli anche se questi sono destinati a ucciderli), soprattutto alle sfumature del dolore di Hanks e del suo padre simbolico, Newman. Per entrambi, la sopraffazione, che li ha visti compiici per un’intera vita, ha tutta l’aria di un peso della cui liberazione saranno grati alla propria morte.

Mario Sesti
Duel

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